effetti_pratici_della_comunicazione_in_medicinaGli effetti pratici della comunicazione in Medicina

Chiedersi se la relazione ha un ruolo nel conseguimento degli scopi della medicina presuppone in via preliminare la definizione di tali scopi: che cosa ci proponiamo noi tutti, ciascuno nel suo ruolo, come medici?Una risposta in termini comuni può essere: aiutare le persone a vivere di più e meglio. In altre parole, potremmo dire: ridurre il numero dei decessi prematuri e migliorare la qualità di vita.Per la loro stessa natura, questi obiettivi lasciano spazio ad un continuo miglioramento. Possiamo chiederci in quale misura oggi la medicina riesca a perseguirli.

Introduzione

Dopo aver esaminato, nei due incontri precedenti, la struttura dell’io e la relazione interpersonale, cominciamo con oggi a vedere che ruolo essa ha nell’esercizio della professione medica. Oggi vorremmo esaminare più da vicino la relazione tra medico e paziente e chiederci se porre attenzione ad essa, dedicare impegno a migliorarla, investirvi energie e tempo ha delle conseguenze pratiche. In altre parole, questo impegno influisce sui risultati della nostra attività di medici? O non è, per caso, un’aggiunta elegante, un orpello che abbellisce il nostro lavoro, di cui ci piace fregiarci, ma che non modifica la sostanza di quello che facciamo e che i pazienti si aspettano da noi? Insomma, ci chiediamo: la relazione è un “oggetto di lusso”, che si può lasciare a chi non ha altro da fare, o è, invece, un elemento rilevante della nostra professione?

Fulvio Freda ed io ci proponiamo di offrire delle risposte a questa domanda da due diverse prospettive: Fulvio a partire dalla sua esperienza di chirurgo ed io da quella di internista impegnato nella prevenzione cardiovascolare, cercando di  evidenziare che cosa la letteratura scientifica ci insegna sull’argomento.

........................................... (Relazione di Fulvio Freda) .......................................................................

Chiedersi se la relazione ha un ruolo nel conseguimento degli scopi della medicina presuppone in via preliminare la definizione di tali scopi: che cosa ci proponiamo noi tutti, ciascuno nel suo ruolo, come medici? Una risposta in termini comuni può essere: aiutare le persone a vivere di più e meglio. In altre parole, potremmo dire: ridurre il numero dei decessi prematuri e migliorare la qualità di vita. Per la loro stessa natura, questi obiettivi lasciano spazio ad un continuo miglioramento. Possiamo chiederci in quale misura oggi la medicina riesca a perseguirli.

La risposta è complessa, perché varia a seconda delle diverse parti del mondo e delle patologie che si prendono in considerazione; inoltre, quando si nota una variazione della mortalità o della morbilità relative ad una malattia nel tempo, occorre distinguere il ruolo causale delle mutate condizioni di vita di quella popolazione da quello proprio della medicina. Consideriamo, a titolo di esempio, l’impatto della terapia sui danni provocati dall’ipertensione arteriosa, che è forse la malattia più diffusa (la sua prevalenza aumenta con l’età, fino ad interessare più del 50% delle persone oltre i 60 anni di età) Kearney ed è responsabile di una quota rilevante della mortalità e morbilità totale. Le evidenze disponibili sull’efficacia della terapia antiipertensiva nel ridurre la morbilità e la mortalità legate all’ipertensione arteriosa sono molto ampie BBLTT 00-08. Tuttavia, qual è l’effetto dell’intervento terapeutico nella popolazione reale, al di fuori degli studi clinici controllati? Se osserviamo la frazione di pazienti la cui ipertensione è ben controllata nei diversi Paesi del mondo, giungiamo a conclusioni ben diverse da quelle che farebbero sperare i grandi studi d’intervento: secondo i dati del progetto MONICA, la quota di ipertesi la cui pressione arteriosa è ridotta al di sotto dei 140/90 mm Hg è minore del 25% in tutti i Paesi considerati, e nella maggior parte di essi si discosta notevolmente da tale valore. Anche considerando solo gli ipertesi trattati, la percentuale di successo terapeutico è scarsa, poiché raggiunge di rado il 30% tra gli uomini ed il 50% tra le donne Antikainen. Se ne deduce che il potenziale della terapia antiipertensiva per ridurre la mortalità e la disabilità (cioè, per perseguire gli scopi principali della medicina) è ben poco utilizzato e, quindi, i vantaggi per le centinaia di milioni di ipertesi presenti nel mondo sono di gran lunga minori di quanto si potrebbe ottenere. Ed infatti si stima che, nonostante l’efficacia comprovata delle terapie disponibili, per l’anno 2001 siano attribuibili globalmente all’ipertensione arteriosa 7.600.000 decessi (13,5% della mortalità totale) e 92.000.000 di anni di vita con disabilità (6,0% del totale) Lawes.

Ci si può chiedere quali siano le ragioni della discrepanza tra l’efficacia degli strumenti a nostra disposizione per la terapia ed un esito così deludente. Tra i vari elementi che possono condurre all’insuccesso terapeutico, il settimo rapporto del Joint National Committee statunitense sulla prevenzione, il rilevamento, la valutazione ed il trattamento dell’iper­tensione arteriosa (JNC7) Chobanian ne sottolinea due, che sono validi per molti campi della medicina, se non per tutti: l’inerzia clinica, cioè il non perseguire con la dovuta energia gli obiettivi che l’evidenza disponibile indica come necessari, e la mancata motivazione dei pazienti. Gli autori del rapporto partono dalla considerazione che anche la terapia più efficace, prescritta dal miglior medico, produrrà i suoi effetti solo se il paziente è motivato a seguire le prescrizioni in termini di assunzione di farmaci e di adeguamento delle abitudini di vita. La motivazione migliora se il paziente nutre fiducia nel proprio medico e fa un’esperienza positiva del rapporto con lui: l’empatia “costruisce la fiducia ed è un potente elemento di motivazione”.

 

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