Sperimentare, con un gesto semplice, la forza del rapporto umano in strutture anonime che possono escludere.

Ero in ospedale e aspettavo di entrare nel reparto, ancora chiuso. Eravamo già in 6, quando si è aggiunto al gruppetto un signore molto anziano che, avvicinatosi, ha tirato fuori un mucchietto di fogli e ricette e ci ha cheisto se si trovava nel posto giusto. Nessuno lo sapeva. Al di là della porta di vetro che ci separava dal reparto si muovevano da una parte all’altra dottori, infermieri e collaboratori e il signore, bussando e agitando i fogli che aveva in mano, cercava l’attenzione del personale di turno. Niente.

«Io devo fare le analisi, mi devono operare, il dottore mi aspetta. Dal primo piano mi hanno detto di venire qua, ma non so se ho sbagliato». Finalmente qualcuno ha aperto e ha detto al signore: “Assolutamente no! Deve andare in un altro posto”. Gli hanno dato indicazioni, gli hanno detto di andare al primo piano di un padiglione dalla parte opposta dell’ospedale. Ora, il Policlinico Umberto I non è proprio il luogo più semplice dove orientarsi e per raggiungere quel posto bisognava camminare un bel po’. «E come faccio? Io non ho capito. Esci, gira a destra. Vai dritto, poi a sinistra... io non ho capito».

A quel punto il gruppo di persone che aspettava si era fatto più consistente, tutti seguivano le vicende del signore, ma alla sua richiesta non esplicita, ma evidentissima di aiuto, nessuno rispondeva. Qualcuno era tornato a lamentarsi col vicino dei ritardi e dell’incompetenza della sanità, chi guardava i fogli che aveva in mano, chi abbassava la testa sperando di non incontrare lo sguardo smarrito del signor Benedetto. Il mio cuore si è fatto piccolo piccolo. «L’accompagno io – gli ho detto -. So dove si trova quel reparto».

Mi ha preso sotto braccio, ha preso la sua borsa con la cartella clinica e tutti i fogli e ci siamo avviati. Piano piano. Il signor Benedetto, classe 1925, era lì per operarsi a una vena della gamba che non funzionava più tanto bene. Ha lavorato per tantissimi anni come capobanchetti in uno degli alberghi più importanti di Roma e, come mi ha detto, ha partecipato ai momenti più belli della vita di tante persone: matrimoni, battesimi, comunioni, nozze d’oro... «È stato merito mio se quelle giornate sono state indimenticabili! Nonostante la fatica di far funzionare tutto alla perfezione, hanno pagato per assistere alla felicità e forse è per questo che sono arrivato a questa età. Perché la felicità rende eterni!».

Siamo arrivati alla clinica, che era quella sbagliata, e siamo dovuti tornare indietro. Al ritorno il tempo impiegato è stato il doppio perché Benedetto era stanco. Procedevamo ancora più piano, ancora più tempo per noi. Il racconto di una vita in un quarto d’ora. La voglia caparbia di autonomia: «io ho un figlio ma non sa che oggi dovevo venire qui, altrimenti avrebbe dovuto prendere un giorno di ferie per me e mi dispiaceva. Ho preso un taxi e in 10 minuti sono arrivato».

Dopo un’ora, ho affidato a Benedetto a un gentilissimo infermiere che l’ha accolto e l’ha preso per mano. «Signorina, non so come avrei fatto oggi senza di lei, posso offrile un caffè?». E ha fatto per porgermi 5 euro. «Rimetta i soldi in tasca e faccia conto che il caffè l’abbiamo preso insieme. Se il mio papà si fosse trovato nella sua stessa situazione, io sarei stata felice di sapere che aveva incontrato una persona gentile. Se vuole, dica una preghiera per me. In bocca al lupo Benedetto!».

A me quella mattina è stato offerto molto più che un caffè. Sono arrivata tardissimo per fare la visita. Mi sono passate davanti almeno cinque persone e la caposala mi ha rimproverato dicendomi che è irrispettoso arrivare così in ritardo. Mi sono scusata e ho detto che avrei aspettato tutto il tempo necessario o avrei preso un altro appuntamento. «Si sieda lì e aspetti». Mi sono seduta con il cuore pieno di gioia.

FONTE: CITTÀ NUOVA

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