è finita qui?. Genera allarme e preoccupazione la risalia dei dati relativi alla diffusione del contagio e del numero di pazienti positivi

al Sars-cov-2 fra i ricoverati.

La pandemia ha reso familiari alla popolazione le rapide oscillazioni delle curve epidemiologiche delle malattie diffusive, complice anche un eccezionale interesse mediatico: l’andamento molto rapido delle fluttuazioni, tipiche delle varianti a maggiore contagiosità, va però analizzato e interpretato tenendo conto delle caratteristiche del virus e del suo rapporto con la popolazione.

Infatti, poiché sia il patogeno sia la popolazione (vaccinata e immunizzata naturalmente) sono cambiati, con con i dati di oggi non stiamo più descrivendo l’epidemia del 2020 e nemmeno quella del 2021: una riflessione sui dati senza alcun adeguamento di metodo può diventare una sommatoria di mele con pere che rischia di confondere le idee.

Per mettere in fila i concetti, ricordiamoci che il virus, in particolare da dicembre del 2021, ha subito una evoluzione significativa in termini di contagiosità e una forte riduzione dell’espressione clinica, soprattutto nei vaccinati e nei precedentemente infetti. Tale dato, consolidato da sempre maggiori evidente di letteratura, si somma con le conseguenze dell’allentamento delle restrizioni sociali, e dunque la malattia circola moltissimo nella popolazione, sempre più in maniera impercettibile e asintomatica (o con sintomi trascurabili auto-limitanti). Si sta verificando nei fatti un processo di endemizzazione del patogeno, destinato a diventare patrimonio, per così dire, della microbiologia degli esseri umani.

Come descrivere e monitorare un fenomeno di cambiamento di questa portata? Le attuali modalità di reportistica di casi e ricoveri non tengono conto in maniera adeguata di queste caratteristiche: si continua a definire come “caso” chiunque sia positivo ad un test, senza tenere conto della clinica, mentre lo screening è attivo soltanto per alcune categorie di utenti dei servizi sanitari.

Una distorsione ancora più grande è quella relativa al conteggio dei casi ricoverati: nonostante i sistemi di reportistica delle Regioni inizino a distinguere i casi di paziente con polmonite bilaterale da Covid rispetto a quelli che risultano positivi ai test di screening ma senza sinotmi (ad esempio un paziente con frattura di femore), non viene operata nessuna distinzione nei dati di ricovero diffusi a livello nazionali e rilanciati dalla stampa o dalle organizzazioni e istituzioni scientifiche.

Questo significa che l’affermazione “stanno aumentando i ricoveri da Covid” diviene sbagliata concettualmente, se non si filtrano i casi sintomatici dagli altri. Per usare un vecchio sillogismo: “il Covid circola in maniera asintomatica fra tutta la popolazione; la popolazione si ricovera; il Covid circola in maniera asintomatica fra chi si ricovera”.

Quindi è finita qui? Smettiamo di preoccuparci e sorvegliare la malattia?
Anche questo è concettualmente sbagliato: la sorveglianza epidemiologica delle malattie endemiche prevenibili con la vaccinazione è sempre attiva anche per patogeni come il morbillo, la varicella, l’influenza. Vanno però usati gli strumenti e i metodi giusti, lasciando lavorare la sanità pubblica (magari un po’ più al riparo dai riflettori).

Quando una malattia si diffonde in maniera endemica, l’obiettivo è controllare i casi gravi e prevenire nuovi picchi epidemici. Per fare questo si osservano i casi diagnosticati (in genere forme sintomatiche oppure gravi e complicate) e si analizza l’andamento dei nuovi casi in confronto alle coperture vaccinali. Per il Covid va fatto lo stesso: la vaccinazione attualmente offre una protezione di 4 volte per l’ospedalizzazione e 6 volte per i decessi. I soggetti fragili e anziani hanno una riduzione del rischio ancora maggiore e vanno continuati a proteggere, anche in attesa del nuovo vaccino con copertura per più ceppi virali, fra cui omicron.

Il lavoro da un lato è quello di analizzare i dati e definire il calendario di richiamo periodico del vaccino anticovid e dall’altro lato quello di produrre una versione di vaccino aggiornata ai ceppi virali circolanti, ora e in futuro. Questo è esattamente quello che si fa con l’influenza, che offre un parallelo molto evidente, sia per impatto nelle categorie fragili sia per variabilità del virus. La vaccinazione va offerta prioritariamente, valutando in base alle circostanze se disporla in maniera cogente per le categorie a rischio e per i professionisti a contatto con queste categorie (sanitari, badanti…).

Dall’inizio di questa emergenza la parola chiave è stata “adattarsi”: misure e provvedimenti da modulare a seconda della fase e delle caratteristiche dell’epidemia. Questo è quello che si deve continuare a fare, prendendo in mano gli strumenti della sanità pubblica che servono e riponendo quelli che sono stati utili in una fase precedente (pronti, ovviamente, a servirsene quando tornassero necessari).

Alcune cose, con il tempo, non saranno più utili: cercare attivamente il virus negli asintomatici, isolare le persone anche dopo la guarigione clinica, mantenere uno screening a tappeto per cercare un patogeno già diffuso in maniera ubiquitaria. Con prudenza e realismo, le cose inutili vanno messe da parte, scegliendo il momento giusto. Non è mai troppo presto per evitare alcune cose sempre sicuramente inutili: ad esempio snocciolare numeri senza descriverne il significato: in questo caso, a mescolare mele e pere, più che fare una buona macedonia, si rischia di mettere l’ananas sulla pizza.


FONTE: CITTÀ NUOVA

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