Gamechu era un bambino di due anni giunto all’ospedale rurale etiope in cui lavoravo
per una massa addominale. Subito, visitandolo, ho notato che era severamente
malnutrito e all’addome si palpava una massa dura che faceva sospettare un tumore.

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Lo abbiamo ricoverato e lo abbiamo rimesso in forze perché potesse affrontare
l’intervento chirurgico. La massa è stata tolta e, pur con i limitati mezzi diagnostici del
nostro ospedale, sembrava essere un linfoma. Visto che si trattava di una forma
potenzialmente curabile con la chemioterapia, dopo aver completamente risolto la
malnutrizione del bambino, lo abbiamo indirizzato all’ospedale pubblico della capitale
con una lettera di riferimento che spiegava il nostro sospetto diagnostico.
L’ospedale pubblico disponeva dei chemioterapici a differenza di noi.
Tre mesi dopo, un bambino malnutrito, sfigurato dalle metastasi linfonodali, giunge di
nuovo al nostro ospedale. Riconosco il papà: è Gamechu!
Il padre mi racconta che sono andati all’ospedale in capitale, ma nonostante questo sia
ufficialmente gratuito, gli sono stati chiesti diversi pagamenti per accedere alle visite ed
alle cure. Poiché non avevano denaro sufficiente, il padre lo ha riportato al nostro
ospedale dove già una volta Gamechu era stato curato per pochi spiccioli.
Mi sono trovata a dovergli spiegare, con la traduzione nel dialetto locale da parte
dell’infermiere etiope, che noi non disponevamo dei farmaci necessari e che – in ogni
caso – la malattia era oramai troppo diffusa.
Lui mi ha chiesto che cosa ritenevo giusto fare. Ho risposto che ritenevo più giusto per il
bambino tornare a casa e vivere i suoi ultimi giorni circondato dalla sua famiglia anziché
in ospedale, lontano dal suo villaggio.
Il padre del piccolo ha mostrato una dignità estrema nel concordare con la mia decisione
e ci siamo salutati in un clima di grande commozione.
E’ stato un momento molto difficile per me perché mi sono trovata non tanto a spiegare
l’incurabilità di una malattia, quanto piuttosto l’inaccessibilità alle cure per i più poveri
in determinati contesti.
Questa esperienza è diventata per me un esempio di come, nel portare sostegno nei
paesi in via di sviluppo, ci dobbiamo adoperare perché il nostro operato non tamponi
solamente le emergenze, ma porti sviluppo e consenta l’accesso alle cure soprattutto
alle fasce più fragili della popolazione.
LA COMPATIBILITÀ DEL SANGUE
Nel reparto pediatrico dell’ospedale etiope in cui ho lavorato, mi è capitato di sentire
che tra gli infermieri locali girava la convinzione che il sangue donatore universale fosse
il gruppo 0 Rh positivo.
La prima reazione sarebbe stata quella di rispondere semplicemente che si sbagliavano e
che il donatore universale è chiaramente lo 0 negativo.
Mentre mi accingevo a risolvere così in modo sbrigativo la questione, però, mi sono resa
conto che dovevo invece soffermarmi per capire su cosa si basava la loro convinzione,
senza limitarmi ad imporre la mia risposta esatta, sminuendo la loro preparazione.
Ci siamo quindi riuniti con tutti gli infermieri intorno ad un tavolo e mi sono messa a
spiegare la compatibilità del sangue così come era stata spiegata a me, anche con
disegni ed esempi pratici: una vera lezione universitaria.
Alla fine, ci siamo tutti alzati dal tavolo con le idee chiare sulle basi fisiopatologiche
della compatibilità del sangue. Per me è stata una lezione a non sottovalutare gli
infermieri etiopi e a spiegare loro le cose come avrei fatto con un collega italiano: così
facendo, non ho imposto il mio punto di vista, ma abbiamo invece capito insieme
l’argomento.
Ho avuto la certezza che nessuno si sarebbe sbagliato perché su una cosa imposta ci si
può confondere o dimenticare, mentre su una cosa ben compresa si può ragionare.
CERIMONIA DEL CAFFÉ
In Etiopia, il caffé è un rito: ci si ferma, si prepara il pavimento con un tappeto di fiori,
si bruciano incensi e si bevono tre tazze di caffé onorando l’ospite.
Quando sono arrivata, ho notato che gli infermieri del reparto e dell’ambulatorio
pediatrico mi proponevano ogni mattina di interrompere il lavoro per fare un’elaborata,
lunga e cerimoniosa pausa caffé. All’inizio, mi sembrava una perdita di tempo: fuori
dall’ambulatorio c’era una lunga fila di bambini da visitare ed il reparto era strapieno.
Da brava europea, mi sembrava di togliere qualità alle cure se mi fossi fermata, così
imponevo di non fare la pausa oppure continuavo il lavoro da sola mentre gli infermieri
si fermavano.
Poi ho capito che stavo sbagliando.
Quella pausa aveva l’immenso valore del rapporto: fermarsi e condividere quel caffé
significava curare ed approfondire il rapporto di fiducia tra noi e permettermi di entrare
nella loro cultura.
Ne ho parlato con i caposala, scusandomi per il mio primo atteggiamento e spiegando
che non ero contraria, ma volevo solo garantire la sicurezza dei pazienti.
Insieme abbiamo concordato che, sia in ambulatorio che in reparto, avremmo fatto la
pausa dopo esserci accertati di aver visitato tutti i casi più gravi.
Partecipando a questa cerimonia del caffé ogni giorno, ho sentito fin da subito crescere
l’apprezzamento del personale locale nei miei confronti ed anche il modo di lavorare
insieme è migliorato.

Anna Berti

U.O. di Neonatologia e Terapia Intensiva Neonatale, Ospedale S. Chiara, Trento

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