Buona parte della comunicazione in ambito medico riguarda situazioni di malattia e quindi il dolore e la sofferenza. Prima di tutto va considerato quale sia il ruolo della comunicazione in medicina.

In tempi non molto lontani, la comunicazione medico-paziente era definita come “una storia di silenzio”, nella convinzione che “un buon paziente segue le direttive del medico senza fare obiezioni, senza porre domande”[2].

Negli ultimi decenni si sta sempre più riscoprendo l’importanza che riveste l’aspetto della comunicazione in medicina, definita anche come la pietra angolare di una pratica medica efficace[3] e si insiste sulla necessità di programmi di formazione specifici per i professionisti sanitari.

Nelle professioni di aiuto il pericolo è quello di ridurre la comunicazione all’insieme di atti tecnologici, protocolli di terapia per la diagnosi e il trattamento di una malattia. Il rischio, in altre parole, è quello di curare la patologia dimenticando il proprietario della stessa.

La comunicazione non può certo essere solo uno scambio di informazioni: richiede di stabilire una relazione che si costruisce nel tempo, con il paziente, con i familiari, con gli altri operatori professionali.

In effetti, ogni domanda di cura contiene anche un’esigenza di relazione. ignorare questa dimensione, significherebbe ridurre la medicina ad applicazione di una tecnica, ad una prestazione di servizi, mentre in primo luogo significa l’incontro con una persona[4].

Negli ultimi anni, anche nelle riviste accademiche si sta focalizzando l’attenzione sulla necessità di una nuova formazione clinica. Si possono delineare le caratteristiche richieste oggi agli operatori sanitari sulla base essenzialmente di tre elementi: competenza clinica, capacità di dialogo e di lavorare in squadra[5].

Tutto questo richiede di sviluppare attitudini al dialogo, che implica capacità di ascolto, ricerca di un “linguaggio” comunicativo, apertura con la quale si accoglie e si fa propria l’istanza dell’altro. La qualità del colloquio clinico non dipende solo dall’applicazione di conoscenze scientifiche o «abilità» comunicative dell’operatore, ma anche dalla sua capacità di “entrare” nel vissuto del paziente, del sentirsi responsabile dell’altro [6].

Se è indubbio che in ogni persona esiste un “bisogno” profondo che porta a relazionarsi agli altri, in medicina assume significati particolari, perché spesso nasce da un disagio psico-fisico. Dunque sono quanto mai necessarie relazioni e parole per comunicare il dolore: i nuovi approcci antropologici che ormai da anni, anche se lentamente, stanno emergendo e proponendo nuovi modelli nell’agire clinico, possono essere di aiuto in questo senso. La Medicina Narrativa, la Slow Medicine, la Patient-Centered Medicine ed altre ancora, pur con varie differenziazioni, richiamano la necessità di coniugare la prospettiva del professionista con quella del paziente, dei suoi valori, del suo vissuto, del suo gruppo familiare e sociale di riferimento.

La narrazione della malattia non è solo la descrizione di un processo patologico, ma della vita di uno specifico essere umano in una particolare situazione[7]. La medicina richiede quindi competenze narrative: l’abilità di conoscere, far proprie, interpretare, agire sulla base delle storie e della sofferenza del paziente[8].

Se questo aspetto riguarda tutti i pazienti, assume però un’importanza peculiare in geriatria: le persone anziane spesso raccontano brani di vita che forniscono informazioni determinanti basate su esperienze, valori, aspetti della loro esistenza[9].

Significativo a questo proposito il seguente colloquio tra medico e paziente: Una signora anziana, che vive sola e senza parenti, ha una grave poliartropatia. E’ stata insegnante di piano per generazioni di bambini, direttore di cori di varie scuole, organista della chiesa. Attualmente le sue condizioni sono peggiorate e le deformità alle mani non le permettono più di suonare. Nel corso della visita il medico, constatando la progressione della malattia, afferma che si rende ben conto del dolore che la signora prova e che prescriverà tutte le terapie necessarie per renderlo sopportabile. Ma la signora risponde: “Dottore, lei non capisce. Non è il dolore il problema. Il problema è che io non so più chi sono”.

Racconto che sembra esemplificare al meglio alcune espressioni dei filosofi: “Il dolore che il paziente narra non coincide esattamente con il male che il medico cerca[10]”. O, con le parole di Salvatore Natoli: “L’esperienza del dolore ha due facce: c’è una parte oggettiva del dolore, che è il danno. E c’è un altro aspetto, che è il senso, cioè quale significato si attribuisce a questo danno, qual è il suo tempo. Il dolore è un’esperienza soggettiva[11]”.

In ambito medico, non si può dimenticare Cicely Saunders, che ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo e nella diffusione delle cure palliative, secondo la quale la miglior definizione di dolore è “…quello che il paziente dice che “gli fa male”. Il dolore può avere componenti fisiche, psicologiche, familiari, sociali, spirituali che confluiscono tutte in un’esperienza totale”. E sollecita a credere alle persone.”…Una volta che si crede a qualcuno, si può cominciare a capire e forse tirare fuori i vari elementi che compongono il dolore”[12].

Offrire la possibilità di comunicare la sofferenza è spesso la componente principale della gestione del paziente nelle patologie croniche e nelle cure palliative: a volte è tutto quanto si può offrire al paziente. E’ stato affermato che, a confronto con la maggior parte dei farmaci, le abilità nella comunicazione hanno indubbiamente un’efficacia palliativa (spesso riducono significativamente i sintomi), un ampio indice terapeutico (il sovradosaggio è raro), e il problema più comune nella pratica è un dosaggio sub-ottimale[13].

In fondo, il dolore è un linguaggio, un codice affettivo, che comunica e che necessita di risposte che apportino sollievo. Il linguaggio del dolore risulta spesso il tramite per una comunicazione e scambio all’interno di una relazione a volte cercata, ma comunque necessaria[14].

Sia in ambito clinico che etico è rilevante l’attenzione alla dimensione terapeutica insita nella possibilità di esprimere il dolore: la comunicazione ha dimostrato di essere efficace come farmaco per la gestione del dolore cronico[15]. Assicurare il paziente che si crede al suo dolore spesso previene discussioni sul fatto che il dolore esista realmente; saper accogliere la frustrazione del paziente, senza dimostrare irritazione, può produrre enormi vantaggi emotivi.

Questi atteggiamenti permettono di comprendere meglio il punto di vista del paziente e di conseguenza di tenerne conto nel trattamento, impegnandosi a costruire una decisione condivisa che “abilita chi soffre”.

Nella considerazione del dolore e della sofferenza, è importante valutare anche la dimensione spirituale, oltre alle altre componenti, che vanno a costituire quello che è stato definito come dolore globale.

Infatti, spesso il dolore porta all’esplorazione di aspetti di natura spirituale e, se non si trova risposta a queste domande, ne può derivare un’ulteriore sofferenza di natura spirituale e psicologica. Sofferenza che richiede di essere ascoltata anche quando non viene esplicitata chiaramente, ma espressa con segnali da decifrare e che sottendono la domanda di fondo: quella di comprendere il senso della propria situazione.

Una sofferenza cha a sua volta rimanda a quesiti di natura clinica: quale spazio dare al dolore spirituale nella relazione terapeutica? Come affrontare questa sofferenza[16]? Risposte non facili, anche per la difficoltà di trovare parole adeguate.

L’importanza delle relazioni socialiPur riconoscendo che il dolore è privato, soggettivo, intrapersonale, può essere però sperimentato ed espresso anche all’interno di un contesto sociale. Comunicare il dolore ad altri è un passaggio chiave per garantire un aiuto e un sostegno[17]; di conseguenza è importante comprendere come le risorse sociali influiscano sul dolore. Si è evidenziato che l’appartenenza ad un gruppo, pur con tipologie e gradi di coesione diversi (amici, colleghi, ecc.), permette di valutare come il supporto sociale influenzi il dolore e la sua comunicazione. I membri del gruppo e l’identità sociale che ne deriva, possono essere risorse preziose a cui attingere per affrontare il dolore, in quanto forniscono un linguaggio comune, obiettivi, motivazioni, una "realtà condivisa". Questo studio ha evidenziato, attraverso neuroimmagini ottenute con Risonanza Magnetica Nucleare, una risposta adattativa al dolore: più le persone riescono a condividere il dolore nell’ambito dei gruppi di appartenenza, meno vengono attivate le aree cerebrali deputate al dolore.

Un aspetto peculiare riveste il dolore nelle persone che presentano un deterioramento cognitivo[18]: sappiamo che l’Alzheimer è la forma più comune.

Spesso sperimentano “uno stato personale di angoscia, in risposta ad una perdita o ad una minaccia percepita o reale. Condizione che ha dimensioni fisiche, sociali, psicologiche, esistenziali e influenza la percezione di sé e la qualità di vita[19], ma che raramente viene considerata. La sofferenza non valutata diventa particolarmente rilevante via via che diminuisce la capacità della persona di esprimerla[20].

Va tenuto presente che, mentre le capacità cognitive declinano, la possibilità di provare sentimenti ed emozioni permane e il comportamento riflette l’umore di chi sta loro accanto. Perciò le interazioni svalutanti nelle relazioni assistenziali incidono negativamente sugli aspetti psicologici, o addirittura sull'identità profonda delle persone. Generalmente non intenzionali, sono assai comuni, nonostante i danni profondi che esercitano sul contesto di cura. Numerose evidenze attestano il rapporto tra qualità delle relazioni e benessere: si può indurre un miglioramento in pazienti con demenza in fase avanzata quando le interazioni sociali cambiano[21]. Anche in queste condizioni cliniche, si evidenziano episodi che rivelano consapevolezza di sé.

I bisogni terapeutici e relazionali sono espressi in genere attraverso gesti, postura, mimica, volume e tono della voce, disturbi del comportamento. Per comprenderli, si richiede la capacità di adeguare la comunicazione al livello funzionale del paziente e rendere congruenti le diverse tipologie del linguaggio per essere efficaci[22].

A tal fine, è evidente come sia necessaria una formazione specifica non solo degli operatori sanitari e di chi esercita professioni di aiuto, ma anche dei “tutori” o amministratori di sostegno per garantire il rispetto dei desideri e delle volontà di queste persone.

La personalità è il prodotto delle relazioni con gli altri e può essere migliorata o peggiorata in base a come viene valorizzata o depersonalizzata.Le stesse persone con demenza vanno considerate agenti attivi nel processo assistenziale, rendendo possibile una reciprocità anche in questi contesti di cura.

Conclusioni

Parole e relazioni sono determinanti per comunicare il dolore: il processo assistenziale non si risolve in un protocollo da scomporre in procedure, vi è sempre implicata una dimensione umana imprevedibile, non standardizzabile, da giocare dentro la relazione, reciprocamente.

Elementi fondamentali per raggiungere questi obiettivi sono il rispetto della soggettività di ogni persona, l’attenzione alla qualità di vita, la considerazione del paziente come partner di una relazione in cui le scelte assistenziali, terapeutiche ed organizzative devono tenere conto della sua parola che bisogna saper ascoltare o decifrare.

Nel contesto odierno, in cui le stesse neuroscienze confermano che la condivisione del dolore non ha solo una motivazione compassionevole, ma ha una radice biologica, è necessario acquisire una maggior consapevolezza della responsabilità di ogni professionista della salute. Diventare consapevoli che lo stare accanto può ridurre la percezione della sofferenza e del dolore in chi soffre, entrando perciò a buon diritto e con le carte in regola, come “presidio scientifico”, nella terapia del dolore [23],[24].

Flavia Caretta [1]

[1] CEPSAG -Centro Ricerca Promozione e Sviluppo dell’Assistenza Geriatrica - Università Cattolica del Sacro Cuore, Facoltà di Medicina e Chirurgia "A. Gemelli" - Roma

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[23] Tiengo M., Dolore e natura in La relazione: l’essenza dell’arte medica. Associazione Medicina Dialogo Comunione, Roma 2007, pp. 169-171.

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