“In un mondo che si sta tramutando sempre più nella propria rappresentazione, fatta di immagini, dati, comunicazioni virtuali, avremo bisogno di medici tecnologicamente evoluti, ma anche capaci di ricordare che quando si ha bisogno di loro non si desidera trovarsi davanti solo una figura tecnica, ma anche un uomo capace di conoscere, comprendere e condividere

”. Così conclude Luigi Ripamonti il suo articolo dal titolo “Il medico ed il malato di fronte all’incertezza” (Corriere della Sera, 3.12.2017). “Ragionare con i pazienti è ciò che manda il medico in depressione. Il contatto umano è una balla!”. Così sentenziava invece il dottor HOUSE, intelligentissimo e supertecnologico medico dell’omonima fortunata serie televisiva. Sono certo che molti medici (me compreso) sorridano ricordando queste parole e, ancorché non ammettendolo apertamente, pensino che sì, in fondo è proprio così, almeno in molti casi… E chi tra noi ha i capelli grigi (ovvero molti anni di professione alle spalle) non potrà fare a meno di rammentare molti pazienti, di fronte ai quali gli è sembrato francamente di perdere tempo. Persone che pensano di sapere tutto o quasi tutto, anche di materie lontane dalle loro normali competenze, oppure che confrontano ogni parola che diciamo con quello che hanno letto su internet. Oppure i diffidenti per natura, ai quali leggiamo negli occhi che per quanto empatici, inclusivi e comprensivi ci sforziamo di essere, non si smuoveranno dalla loro freddezza. Ed ancora quelli che, sull’onda delle notizie rimbalzate dai media sempre a caccia di scoop su presunte quanto improbabili miracolistiche cure, considerano la guarigione ed il benessere come un atto dovuto da parte dei medici e del sistema sanitario. Tant’è che se la guarigione non avviene, sono subito pronti a denunciare il medico. I cosiddetti pretendenti all’immortalità (ricordate Zygmunt Bauman?). E poi coloro che, parenti stretti dei precedenti, ritengono che la biologia e la medicina siano scienze esatte, piuttosto che scienze probabilistiche quali in realtà sono. Con tutte queste persone, penserà qualcuno, non ti puoi certo mettere a raccontare che già molto tempo fa Carl Popper aveva spiegato che la scienza è tale solo se contempla la possibilità dell’errore, tanto che una teoria scientifica può definirsi tale quando sa già dall’inizio che sarà smentita da una successiva scoperta. O anche che William Osler (1849-1919), medico considerato il padre della medicina moderna, affermava che “la medicina è la scienza dell’incertezza e l’arte della possibilità”. Poi qualcuno ha ripreso l’ultima parte, adottandola come definizione della politica, ma questa è un’altra storia. E mi sovvengono le parole di Enzo Biagi, che ascoltai in una delle ultime interviste: la medicina è in buona parte un’illusione. Cosa funzioni veramente non lo sappiamo. È già molto se sappiamo cosa “non” funziona… Ma allora, serve davvero spendere tempo ed energie per parlare con i pazienti? Sì, serve. Perché tra tante incertezze c’è una certezza. Quella della capacità consolatoria della presenza umana. Della presenza di un medico che si misuri con la componente emotiva che accompagna la malattia. Che si adoperi per comprendere le priorità personali di quell’individuo, i suoi valori e le sue aspirazioni. Soprattutto quando il malato è posto di fronte a diverse alternative terapeutiche, e si aspetta da noi un atto medico particolare, forse il più importante. Di aiutarlo a scegliere.

Alessandro Nobili

Fonte: Bollettino Notiziario - n° 1 gennaio 2018

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