Ho iniziato la mia carriera professionale di medico in Germania e dopo aver lavorato per quattro anni in una clinica di riabilitazione della Foresta Nera, mi sono trasferito in un ospedale per acuti nella città di Offenburg. Un giorno in terapia intensiva era stato ricoverato un paziente, originario della Germania Orientale, che aveva potuto emigrare in quella Occidentale solo dopo aver raggiunto l’età della pensione; il governo della Repubblica Democratica Tedesca infatti, mentre non permetteva che nessun cittadino in età lavorativa abbandonasse il paese, favoriva l’uscita dei pensionati che ne facevano richiesta, lasciando così che fosse poi la Germania Federale a farsi carico della relativa spesa pensionistica.

Ora questo paziente, dopo essere arrivato all’agognata meta e aver così riacquistato la libertà, era stato colpito da una grave emorragia cerebrale proprio il giorno in cui ricorreva l’anniversario dell’insurrezione di Berlino repressa nel sangue dalle truppe di occupazione sovietica, anniversario che il governo comunista celebrava addirittura come festa nazionale. Una mattina, mentre lo visitavo, mi sorprese confidandomi: «Vede, io sono cristiano evangelico, ma le devo confessare che la cosa che più mi ha aiutato da quando sono qui in ospedale è stato quel crocifisso» (gli evangelici infatti non sono inclini ad utilizzare segni concreti della fede cristiana) e con il braccio che poteva muovere mi indicava il crocifisso appeso al muro di fronte al suo letto. Questo episodio del mio lavoro di medico mi è rimasto impresso nella memoria perché mi ha fatto capire quanto abbia bisogno chi soffre di una presenza che dia conforto e significato al dolore; quel crocifisso, segno di Cristo morto e risorto per la nostra salvezza, aveva dato a quel paziente la forza di affrontare la sua difficile situazione ed era un’esperienza che sentiva il bisogno di comunicare proprio a me, facendomi partecipe della sua scoperta e richiamandomi così a qualcosa che era importante anche per me.

Che ricchezza di esperienza umana può rappresentare per noi medici il rapporto con i nostri pazienti se non siamo superficiali nel nostro lavoro! Se mettiamo in gioco nell’esercizio della nostra professione la nostra umanità, con le sue domande e le sue scoperte, possiamo condividere l’umanità di coloro di cui ci prendiamo cura, che sicuramente è messa in gioco dalla situazione di bisogno in cui si trovano; ma se invece lasciamo da parte la nostra umanità e gestiamo il nostro lavoro solo come una questione tecnica, allora neppure ci accorgiamo di quello che succede nei nostri pazienti, perdendo così la cosa più interessante del nostro lavoro che è proprio il livello umano e la nostra vita professionale diventa così un deserto di indifferenza, se non di cinismo e di insoddisfazione.

Dopo due anni di lavoro presso l’Ospedale di Offenburg ho lasciato la Germania per andare a lavorare con altri quattro amici italiani, un’infermiera e tre medici, in Paraguay, a Villarrica, per collaborare ad un progetto sanitario dell’Università Cattolica del Paraguay. Ciò che mi ha spinto a lasciare il mio lavoro in Germania, dove avevo un posto di ruolo e mi ero nel frattempo guadagnato la stima dei miei superiori, è stata la prospettiva per me attraente di andare a realizzare un’opera insieme ad amici che condividevano la mia stessa esperienza cristiana. A Villarrica abbiamo realizzato, insieme a medici e infermieri locali, un piccolo ospedale di quaranta posti letto, una scuola di infermeria e una rete di volontari sanitari per le comunità rurali della regione.

I cinque anni vissuti in Paraguay sono stati oltre che belli anche importanti per il mio sviluppo professionale; dicevo allora, un po’ scherzando, che mentre tanti medici paraguayani andavano a specializzarsi all’estero, io ero andato a generalizzarmi in Paraguay; infatti, oltre che l’internista, in quegli anni ho fatto l’anestesista, l’ostetrica, il tecnico di radiologia, il direttore dell’ospedale e il responsabile del progetto di cooperazione internazionale; ma soprattutto ho partecipato alla realizzazione di un’opera comune nell’ambito di un’esperienza di fraternità. Quando si lavora insieme per uno scopo comune, che in un ospedale è prendersi cura dei pazienti nel modo migliore possibile, le diverse competenze ed esperienze professionali costituiscono un arricchimento di inestimabile valore e si può imparare molto gli uni dagli altri; ma perché questo avvenga bisogna essere consapevoli dello scopo comune e dell’importanza del lavoro degli altri per il raggiungimento dello scopo stesso.


Nell’organizzazione complessa di un grosso ospedale, come quello in cui attualmente presto la mia opera professionale, la collaborazione tra diverse figure professionali rappresenta uno dei nodi fondamentali. Purtroppo può capitare che invece che una collaborazione si venga a creare una contrapposizione. Il mio primo giorno di lavoro al Niguarda mi sono sentito dire da una persona con cui avrei dovuto collaborare, che riteneva che il fatto di essere medici costituisse un handicap insuperabile; l’affermazione mi ha meravigliato ma non mi ha toccato più di tanto, anche perché la coscienza che ho di me non deriva dal fatto di essere medico, ma dall’essere anche nel mio lavoro prima di tutto un uomo, con le esigenze e le evidenze che ogni cuore umano ha. Ma quella sentenza così apparentemente senza appello mi ha dato il sentore della difficoltà che avrei incontrato nel tentativo di costruire una cordiale collaborazione.
Allora cosa fare? La cosa più importante è proprio quella di mettere il cuore nel proprio lavoro, non partire dalla affermazione di un aspetto parziale, come può essere un ruolo e il potere che ne deriva, ma dalla propria umanità, e incontrare così l’umanità degli altri e i primi che se ne accorgono sono proprio i pazienti. Ho visto così in tanti, se non in tutti, che nel tempo si sono sciolti pregiudizi e distanze. Ma si tratta di una sfida quotidiana.

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