La comunicazione della diagnosiCome sappiamo, medico e malato non parlano sempre lo stesso linguaggio.Prendiamo l’esempio di un cancro. Il medico cita spesso le statistiche e la “possibilità” della guarigione, mentre al malato interessa se lui stesso potrà guarire.In altri casi una diagnosi, apparentemente non troppo grave per il medico perché ritenuta “guaribile”, può essere mal accolta dal malato, che vede diminuire la qualità della propria vita, che per lui può avere un’importanza difficilmente valutabile dall’altro.Inoltre, la percezione della gravità di certe diagnosi è cambiata nel corso degli ultimi decenni e quindi bisogna tenerlo presente. Per esempio, segnalare una TBC è recepito in modo diverso, a seconda dell’età del malato. Alcune persone anziane la considerano ancor oggi una malattia “vergognosa” e spesso mortale.
Non appena il malato dubita di avere una malattia grave, cerca di sfuggire alla verità, pur aggrappandosi con tutte le sue forze al medico che potrebbe guarirlo. A questo punto la relazione col medico rischia di divenire dipendente. Il malato, allora, si guarderà bene dal porgli quelle domande che lo preoccupano veramente, temendo di urtare o disturbare il medico dal quale dipende per la cura.
Succede anche che il malato, inconsciamente, nutra un certo risentimento verso il medico che lo pone di fronte ad una realtà insostenibile. In un certo qual modo lo ritiene colpevole per la diagnosi fatta.
È dunque molto importante che il medico sappia ascoltare per capire il malato, cioè occorre che egli si metta al posto del paziente per potergli dare le risposte adatte alle sue domande, perfino a quelle non esplicitamente espresse. È essenziale prendere il tempo per spiegare le tappe della cura, il perché e lo svolgimento degli esami da farsi, prendere il tempo anche per dei momenti di silenzio affinché il paziente possa interiorizzare quanto gli si è detto e formulare poi quelle domande che ha in cuore.
Certamente occorre anche lasciarlo libero di dire che non vuol saper altro.
Occorre molta vigilanza per cogliere ogni sua seppur minima esitazione, cercando di capire cosa egli intenda realmente, anche dietro una semplice osservazione anodina.
Cito la dott.ssa Jocelyne Pinon, psichiatra: «Insisto sul fatto che il medico deve usare un linguaggio chiaro e non esitare, allorché dice delle cose importanti al suo malato, di verificare che questi lo abbia ben capito. Non esitare a ripetere la spiegazione. Idealmente, è importante che il medico ottenga la partecipazione informata del malato alla sua cura. In effetti – anche se noi medici spesso non ci pensiamo –, è il malato che decide della sua vita e della cura da fare, pur avendo noi, talvolta, l’illusione di esserci per molto di più… Dobbiamo fornire al paziente informazioni autentiche sulle cure e gli esami praticati e sugli effetti secondari o sulle precauzioni da prendere. E dobbiamo farlo dopo esserci assicurati che egli è disponibile fisicamente e psichicamente ad ascoltare e a ricordare quanto gli abbiamo detto».
Per realizzare ciò, il medico deve lasciarsi interpellare, rimettendo continuamente in questione il suo modo di vedere o di fare. Anche se crede di avere una risposta o una cura di cui è sicuro, deve farsi “piccolo” davanti al paziente per dargli la possibilità di rifare con lui il percorso che permetterà a questi di capire e di sentirsi capito.
Anche se ciò non avrà nessuna ripercussione sulla diagnosi o sulla cura, una cosa è certa: una siffatta “collaborazione tra uguali” accelera spesso il processo di guarigione.
In conclusione, non c’è cura se medico e paziente non comunicano su diagnosi e terapia con un linguaggio comprensibile e massima disponibilità: il tempo dedicato alla comunicazione è tempo di cura (Carta di Firenze, 1995).

di GABRIELLE METTENDORFF

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