disabilità intellettiva

con disabilità intellettiva. Il termine “disabilità intellettiva”, o il termine equivalente “disturbo dello sviluppo intellettivo”, adottato nella bozza della revisione 11 della Classificazione internazionale delle malattie,

sostituisce oggi quello di “ritardo mentale” usato nei decenni scorsi.

 

Il dolore della persona con disabilità intellettiva

 

Disabilità intellettiva e invecchiamento

Il termine “disabilità intellettiva”, o il termine equivalente “disturbo dello sviluppo intellettivo”, adottato nella bozza della revisione 11 della Classificazione internazionale delle malattie[1], sostituisce oggi quello di “ritardo mentale” usato nei decenni scorsi. Questa categoria nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali DSM-5 è stata collocata in un raggruppamento meta-sindromico, definito “disturbi del neurosviluppo”, il cui esordio avviene per l’appunto nel periodo dello sviluppo, con interferenza, pertanto, sulla maturazione psicologica e comportamentale del bambino e conseguenti compromissioni del funzionamento personale, sociale, scolastico o occupazionale. Tra i disturbi del neurosviluppo sono annoverati, oltre alla disabilità intellettiva, i disturbi dello spettro autistico, i disturbi della comunicazione, il disturbo ADHD, i disturbi specifici dell’apprendimento, i disturbi del movimento e i disturbi da tic[2]. I disturbi del neurosviluppo si presentano frequentemente in co-occorrenza. La prevalenza dell’autismo nelle persone con disabilità intellettiva, ad esempio, è stimata intorno al 30-40% ed è tanto maggiore quanto più grave è il deficit intellettivo[3]. Ugualmente ADHD e disturbi specifici dell’apprendimento si presentano spesso in comorbidità[4]. La diagnosi di disabilità intellettiva richiede, secondo il DSM-5 la presenza di tre criteri fondamentali: 1) deficit delle funzioni intellettive (come il ragionamento, la soluzione di problemi, la pianificazione, il pensiero astratto, il giudizio, l’apprendimento scolastico o l’apprendimento dall’esperienza), 2) deficit del funzionamento adattivo, che si manifesti con mancato raggiungimento degli standard di sviluppo e socio-culturali per l’indipendenza personale e la responsabilità sociale e 3) insorgenza dei deficit intellettivi ed adattivi nell’età evolutiva.

L’aspettativa di vita delle persone con disabilità intellettiva è inversamente correlata alla severità del deficit cognitivo. Grazie ai progressi medici (in particolare alla chirurgia sui difetti cardiaci) e al miglioramento degli standard di vita, di assistenza sociale e di sostegno, anche le persone con disabilità intellettiva grave, però, ora vivono più a lungo. Mentre negli anni venti-trenta, ad esempio, l’aspettativa di vita per una persona con sindrome di Down era di soli 12 anni, oggi è intorno ai 60 anni, maggiore nei maschi contrariamente alla popolazione generale[5],[6].

La popolazione con disabilità intellettiva è particolarmente vulnerabile ai mutamenti sociali in atto: l’invecchiamento demografico, l’aumento delle malattie croniche, i processi di de-tradizionalizzazione della società con trasformazioni della famiglia, dell’identità e delle reti sociali. Le persone con disturbi del neurosviluppo in età adulta, rispetto agli individui con disabilità acquisite a causa di incidenti o patologie, possono contare su minori fonti di sostegno quali coniugi, figli o altre persone significative della propria rete sociale[7]. Una grande percentuale di persone con disabilità intellettiva vive in famiglia. A mano a mano che l’individuo invecchia, anche i genitori invecchiano e diventano sempre meno in grado di fornire i sostegni pratici e fisici necessari e può accadere anche che la loro percezione dei suoi bisogni sociali ed emotivi non si adatti ai cambiamenti correlati al suo sviluppo psicofisico ed essi continuino a considerarlo alla stregua di un bambino.

Le persone con disabilità intellettiva incontrano gli stessi problemi di invecchiamento delle persone a sviluppo tipico, ma con fragilità addizionali, che le espongono a maggiori rischi: carenza di servizi specifici, mancanza di consapevolezza riguardo alle loro problematiche, pregiudizi e discriminazioni. Questa popolazione si caratterizza anche per maggiori e complessi bisogni di salute psicofisica rispetto alla popolazione generale, per l’elevata comorbilità con epilessia, disturbi sensoriali, neuromotori, cifoscoliosi e patologie internistiche con tendenza a cronicizzare. Nella sindrome di Down, la più conosciuta e frequente tra le sindromi genetiche causa di disabilità intellettiva, vi è una maggiore prevalenza di cardiopatie, distiroidismo, iperuricemia, malattie gastrointestinali, diabete mellito, disturbi visivi e uditivi, flogosi respiratorie, sovrappeso corporeo…

Nella popolazione con disabilità intellettiva, inoltre, la presenza dei disturbi psichiatrici risulta essere quattro volte superiore a quella della popolazione generale, con un'età d'insorgenza generalmente molto più bassa[8].

Un’ulteriore peculiare fragilità dell’invecchiamento delle persone con disturbi del neurosviluppo è dovuta al fatto che le limitazioni dovute all’età si vanno ad incrociare con effetto sinergico negativo con quelle derivanti dalle problematiche preesistenti e cronicizzate.

 

Dolore e sofferenza nella persona con disabilità intellettiva

Il dolore ha una componente sensoriale, fisica e una componente affettivo-emozionale. Esso non è semplice nocicezione, ma ha una dimensione soggettiva, legata al vissuto e ai sentimenti. La valutazione del dolore di un paziente, indipendentemente dagli strumenti utilizzati, richiede, perciò, sempre, la capacità del professionista sanitario di creare accoglienza, ovvero quel “prezioso silenzio e (lo) spazio interiore riservato ‘gratuitamente’ al proprio interlocutore”, che “ comincia a produrre i suoi effetti quando diventa luogo per un incontro a livello più profondo…”[9]. E questo tanto più nella persona con disabilità intellettiva, che ha per sua stessa natura difficoltà a comunicare verbalmente. Creare il contatto richiede, innanzitutto, uno spazio che favorisca l’incontro e un tempo adeguato, rispettoso della lentezza della persona con disabilità. L’importanza della relazione, anche per non incorrere in grossolani errori diagnostici, è ben sottolineata da Alexandre Jollien, filosofo e scrittore francese Cerebroleso dalla nascita, nei suoi libri[10], [11] racconta che da bambino era considerato come “insufficiente” non solo sul piano motorio, ma anche mentale e ricorda quello “sguardo che mi ha ingabbiato dentro una categoria”, uno sguardo che vede solo la difficoltà, la disfunzionalità, il sintomo.

Comunicazione tecnica e relazione di reciprocità non sono in antitesi, anzi è fondamentale coniugare nella quotidianità clinica rigore scientifico e solido impianto umano, nel rapporto con ogni paziente, ma, se possibile, ancora di più nel rapporto con il paziente con disabilità intellettiva.

Un disturbo del neurosviluppo non è una malattia, ma una condizione esistenziale. Nei confronti della presenza di dolore nella disabilità intellettiva vi sono due pregiudizi culturali opposti. Il primo è considerare la disabilità equivalente a sofferenza, come se il funzionamento differente implicasse necessariamente disagio o dolore fisico. Se un tetraplegico fa degli scatti bruschi non è che prova per questo dolore, è semplicemente il suo modo di essere, come fa notare spesso nei suoi interventi, parlando di se stesso, Claudio Imprudente, formatore sulla disabilità e neurodiversità.

Questo preconcetto può avere conseguenze drammatiche, fino a pensare che vi siano vite non dignitose, inutili e da considerarsi un peso sociale. A questo proposito, non si può non menzionare il discorso pronunciato il 20 marzo 2017 da Charlotte Fien, nella sede del Comitato dei Diritti umani delle Nazioni Unite di Ginevra, in occasione della giornata mondiale della sindrome di Down. Facendo riferimento alla notizia di un test ematico non invasivo per la diagnosi di anomalie genetiche fetali, ha affermato: “Un test che verifica la S. Down è usato per uccidere questi bambini… Io ho la sindrome di Down. Non sto soffrendo, non sono malata. Nessuno dei miei amici che ha la sindrome di Down sta soffrendo. Abbiamo tutti vite felici… Abbiamo soltanto un cromosoma in più. Siamo esseri umani. Non siamo mostri. Non abbiate paura di noi. Per favore non ci sterminate”.

Un altro pregiudizio culturale privo di riscontro scientifico è che le persone con disturbi del neurosviluppo, al contrario, siano meno sensibili agli stimoli dolorosi e risparmiati dalla sofferenza, essendo inconsapevoli della propria condizione. Esistono, è vero, alcune rare condizioni di ipo-analgesia, ad esempio la sindrome di Prader Willi, caratterizzata da anomalie ipotalamo-ipofisarie, alterata percezione della temperatura e alta soglia del dolore. D’altro canto, invece, nella sindrome dell’X fragile sembra essere presente una minore tolleranza al dolore, a causa di riduzione della sostanza bianca[12]. Le persone con paralisi cerebrale infantile possono essere affette da parestesie o da anestesia agli arti, ed è importante tenerne conto nelle manovre assistenziali.

In generale, nella popolazione con disabilità intellettiva, numerosi sono i fattori di rischio per lo sviluppo di condizioni cliniche dolorose: bassi livelli di attività fisica, tabagismo, cattiva alimentazione, ridotto coinvolgimento decisionale nella cura della propria salute, comorbilità elevata, limitato accesso ai servizi per la gestione del dolore, invecchiamento precoce e aumentata prevalenza di disturbi muscolo-scheletrici soprattutto in alcune sindromi genetiche[13]. Inoltre, l’elevata prevalenza di disturbi del comportamento e patologie psichiatriche espone le persone con disabilità intellettiva ad un maggiore rischio di traumatismi e lesioni accidentali per agìti auto e eterodiretti, ma comporta anche frequentemente terapie croniche con neurolettici e conseguenti effetti collaterali di parkinsonismo, mialgie, discinesie dolorose.

I dati epidemiologici, tuttavia, sono scarsi. Infatti, storicamente gli individui con disabilità intellettiva sono stati esclusi dalla ricerca del dolore, perché considerati insensibili o indifferenti al dolore, quando non addirittura sottoposti a pratiche e procedure con scarsa considerazione per la loro capacità di sperimentarlo o esprimerlo. La valutazione del dolore, poi, sovente non è ancora parte, neanche oggi, della pratica clinica quotidiana. Vi sono, però, anche importanti limitazioni metodologiche, per l’incapacità delle persone con disabilità intellettiva di esprimere disagi e stati d’animo con modalità convenzionale e linguaggi comuni. Le fonti di informazione sono quasi sempre rappresentate da familiari o assistenti che conoscono bene il soggetto, i cosiddetti proxy.

Studi clinici recenti, tuttavia, sembrano evidenziare che il dolore cronico - definito come dolore che dura più di 3 mesi - colpisca similmente alla popolazione generale circa il 15-20% delle persone con disabilità intellettiva, ma che l’85% di queste non avrebbe una prescrizione analgesica, nemmeno in caso di dolore grave e quasi mai vi sarebbe il coinvolgimento di servizi specialistici di terapia del dolore[14].

Tra i motivi per cui il dolore nella persona con disabilità intellettiva non è adeguatamente riconosciuto e trattato si possono comprendere: la comorbidità complessa con potenziali concause multiple di dolore, l’incapacità del paziente di identificare chiaramente e comunicare il dolore, l’occorrenza di professionisti sanitari competenti a decifrare il linguaggio non verbale, ma anche la necessità di osservazione e ascolto attenti, con utilizzo di strumenti adeguati per la sua rilevazione.

Le manifestazioni con cui il disabile intellettivo può esprimere dolore e sofferenza, infatti, sono le più varie, quali espressioni del volto, gesti, posture antalgiche, lamenti, urla, fuga, comportamenti insoliti, oppositivi, irrequietezza, agitazione psicomotoria o viceversa riduzione del movimento e delle attività abituali, denudarsi, rifiuto del cibo, alterazione del ritmo sonno-veglia, aggressività verso se stessi, verso oggetti o altre persone. Spesso, purtroppo, più il paziente è agitato e aggressivo, meno antidolorifico viene somministrato, perché si tende a rispondere a questi tipi di comportamento con farmaci antipsicotici, che tra l’altro possono mascherare sintomi relativi al dolore.

Valutazione e trattamento del dolore

Secondo l'Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore (IASP) “ogni individuo apprende il significato del dolore attraverso le esperienze correlate ad una lesione durante i primi anni di vita” e, come già detto, “… alla componente somatica si accompagna una carica emozionale"[15]. Per questo motivo, le scale osservazionali in uso per la rilevazione del dolore devono essere validate nella popolazione adulta con disabilità intellettiva e non si possono traslare semplicemente le scale utilizzate per le persone affette da demenza o per i bambini. Inoltre, gli indicatori comportamentali vanno tarati sul repertorio comunicativo di cui dispone il singolo soggetto.

Rimane comunque estremamente difficile misurare l’intensità del dolore in queste persone, soprattutto quando il deficit cognitivo è severo. Anche possedere capacità verbali, non può essere considerata come un'indicazione che il dolore sarà comunicato, perché spesso le persone con disabilità intellettiva e/o con disturbi dello spettro autistico hanno una scarsa consapevolezza del proprio corpo o non riescono a comunicare la presenza e la localizzazione di un dolore.

I caregiver (familiari, personale assistenziale nelle strutture diurne o residenziali), per la conoscenza intima delle persone di cui si occupano, sono interlocutori indispensabili nella lettura dei bisogni di base e dei segnali che possono indicare la presenza di dolore[16]. Ma, per una valutazione del dolore affidabile e valida, serve integrare auto ed eterovalutazioni e nei soggetti gravi, effettuare un’osservazione strutturata e sistematizzata del comportamento da parte di più proxy[17].

Per quanto riguarda il trattamento del dolore nella persone con disabilità intellettiva, come in generale in tutte le persone con difficoltà di comunicazione, tutti i protocolli raccomandano, innanzitutto, di trattare sempre il dolore procedurale prima delle procedure stesse, esami, terapie o manovre potenzialmente dolorose. Nella prescrizione dei farmaci analgesici, poi, è necessario porre attenzione alle comorbidità presenti (in particolare epilessia e vescica neurologica) e alla compatibilità con cure preesistenti e ricordare che oltre al dolore fisico può essere presente un disagio psicologico. E’ importante garantire negli ambulatori e nei reparti ospedalieri i presidi personali specifici (carrozzine, sistemi di postura, ausili di comunicazione, ecc.) e il più possibile la presenza di un caregiver, non solo perché fonte di informazioni e interprete, ma anche perché può tranquillizzare, assistere ed aiutare il paziente. Molti sono pure i possibili approcci terapeutici non farmacologici, quando indicati: terapia fisica strumentale, massoterapia, fisioterapia, ma anche terapia occupazionale, musicoterapia, danza terapia, pet-therapy, orticoltura, intervento psicologico o psicomotorio, ecc. Tra questi, vi è la stimolazione multisensoriale, che mosse i primi passi fin dagli anni settanta in Olanda con l’approccio Snoezelen, ampiamente utilizzata ormai anche in Italia e anche per le persone con disturbi del neurosviluppo: un ambiente facilitante, fatto di materiali, ma anche di relazione con l’altro da sé, con finalità di creare un canale comunicativo eterodiretto e di diminuire l’ansia, e di incanalare positivamente energie che altrimenti verrebbero disperse o investite per alimentare comportamenti stereotipati o ossessivi. La stanza multisensoriale è un setting adeguato anche all’intervento riabilitativo specifico, perché si configura come ambiente facilitante.

 

Garantire l’accesso alle cure

Le famiglie e gli operatori ben conoscono quanto sia arduo per tante persone con disabilità intellettiva l’accesso agli esami diagnostici e alle cure. Il pronto soccorso, in particolare, può risultare una barriera insormontabile, con conseguenze devastanti. La sensazione di essere rinchiusi in un ambiente ostile, assieme a gente sconosciuta che magari urla o si lamenta, la richiesta di stendersi su un lettino senza capire perché, il timore di esami invasivi, ma soprattutto il tempo di attesa che si può prolungare per ore, possono scatenare comportamenti violenti e difficilmente contenibili. La degenza in ospedale in seguito ad un intervento chirurgico senza riuscire a esprimere i propri bisogni e avere accanto qualcuno che possa coglierli, può esporre un paziente già fragile a complicanze mediche gravi. Ma in una persona con disturbi comportamentali, o con tetraparesi in cui l’ipertonìa e i movimenti distonici aumentano con la tensione emotiva, anche un semplice prelievo ematico, una radiografia del torace, una sutura cutanea possono rivelarsi difficoltosi. Un’indagine conoscitiva nazionale sui percorsi ospedalieri delle persone con disabilità, condotta dalla ONLUS Spes contra spem e presentata il 1 aprile 2016 presso l’Istituto superiore di sanità, ha evidenziato che l’ospedale ancora oggi spesso rappresenta un vero e proprio percorso a ostacoli per le persone con disabilità: barriere architettoniche e culturali, contesti inadeguati, attese lunghe, mancanza di competenze specifiche da parte dei professionisti sanitari… E la Carta dei diritti della persona con disabilità in ospedale, sottoscritta da numerose associazioni, raccomanda, tra l’altro, di promuovere la cultura della valutazione e del sollievo del dolore, sviluppare nei servizi sanitari competenze specifiche nella gestione di questi pazienti, istituire accessi facilitati nei pronto soccorsi e percorsi ospedalieri dedicati, individuare dei referenti case manager [18].

Quest’ultima figura è particolarmente importante nella disabilità intellettiva, in quanto in assenza di qualcuno che valuti globalmente un sintomo o un intervento, la famiglia rischia di doversi affidare di volta in volta a specialisti diversi, che pur competenti per la propria branca non hanno esperienza delle problematiche multiple del soggetto, né disponibilità di spazi e tempi adeguati, né possibilità di rapportarsi con gli ambienti e le realtà in cui vive.

Inoltre, poiché l’esecuzione di interventi diagnostici e terapeutici anche relativamente semplici necessita di un particolare impegno organizzativo, di mezzi e di persone, le strutture sanitarie non sono incoraggiate ad eseguire prestazioni e ricoveri ospedalieri per questa popolazione. Da più parti si auspica, pertanto, che i sistemi di rimborso delle prestazioni prendano in considerazione la complessità clinica che spesso questi pazienti presentano e che implica necessariamente un aumento dei costi. E’ un fattore fondamentale di cui tener conto per garantire davvero, nella pratica, l’equità nell’accesso ai servizi sanitari e il diritto alle cure delle persone con disabilità intellettiva.

 

 Arneodo Mariagrazia, Opera don Guanella, Roma

 

[1] 11th Revision of the International Classification of Diseases for Mortality and Morbidity Statistics, ICD -11 MMS, Family of International Classifications, World Health Organization. www.who.int/classifications/icd/revision/en/

[2] Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali DSM-5, Raffaello Cortina Editore, 2014

[3] Morgan, C.N., Roy, M., Chance, P. Psychiatric comorbidity and use in autism. A community survey. Psychiatric Bulletin of the Royal College of Psychiatrists, 2003; 27: 378-381

[4] Carroll, J. M., Maughan, B., Goodman, R., Meltzer, H. Literacy difficulties and psychiatric disorders: Evidence for comorbidity. Journal of Child Psychology and Psychiatry, and Allied Disciplines, 2005; 46(5), 524-532.

[5] Leonard S., Bower C., Petterson B., Leonard H. Survival of infants born with Down’s syndrome: 1980–1996. Paediatr. Perinat. Epidemiol., 2000;14:163–171.

[6] Censis, Diario della transizione /3, 2014

[7] Patti P, Amble K, Flory M. Placement, relocation and end of life issues in aging adults with and without Down’s syndrome: a retrospective study. Journal of Intellectual Disability Research, 2010; 54 issue 6, 538-546

[8] Cooper SA, Smiley E, Morrison J, Williamnson A, Allan L. Mental ill-health in adults with intellectual disabilities: prevalence and associated factors. British Journal of psichiatry, 2007; 190: 27-35

[9] Montuschi F. Silenzi e parole nelle relazioni, Cittadella Assisi, 2009; pag. 15

[10] Jollien A. Il mestiere di uomo. Qiqajon, 2003

[11] Jollien A. Elogio della debolezza. Qiqajon, 2001

[12] Bertelli M, BiancoAM. Il dolore nelle persone con disabilità intellettiva/disturbi dello sviluppo intellettivo. http://www.crea-sansebastiano.org (accesso 02.05.2017)

[13] Walsh M, Morrison TG, Mc Guire BE. Chronic pain in adults with an intellectual disability: prevalence, impact, and health service use based on caregiver report. Pain, 2011, Sep;152(9):1951-7.

[14] McGuire BE, Daly P, Smyth F. Chronic pain in people with intellectual disability: under-recognised and under-treated? J Intellect Disabil Res, 2010; 54:240-245

[15] International Association for the Study of Pain. International Association for the Study of Pain: classification of chronic pain. Pain, 1986;24:1-226

[16] Spes contra spem. Carta dei diritti delle persone con disabilità in ospedale. htpp//www.spescontraspem.it (accesso 02.05.2017)

[17] Bertelli M, Bianco AM. Il dolore nelle persone con disabilità intellettiva/disturbi dello sviluppo intellettivo. http://www.crea-sansebastiano.org (accesso 02.05.2017)

[18] Spes contra spem. Carta dei diritti delle persone con disabilità in ospedale. http://www.spescontraspem.it (accesso 02.05. 2017)

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