DAI PRINCIPI ALL’ATTUAZIONE CONCRETA
La risposta a questa chiamata è il servizio all’uomo, che il medico esercita mettendo a disposizione ciò che ha e ciò che è. Ed il primo servizio che possiamo offrire al paziente, che precede temporalmente e talvolta anche in altri sensi la diagnosi e la terapia, è il rapporto che costruiamo con lui. Il rapporto è anche la prima forma di protezione e di reintegro del benessere del paziente, nonché del medico stesso, proprio in forza della natura intrinsecamente sociale dell’uomo. Ha senso, allora, parlare di “partnership”, di collaborazione solidale, nella quale il medico ed il paziente si trovano sullo stesso piano esistenziale.
La solidarietà con il paziente non esime il medico e l’operatore sanitario dall’assumersi singolarmente le proprie responsabilità, di cui devono essere disposti a render conto nelle sedi appropriate. In un certo senso, è questo che rende possibile la solidarietà. Solo se, coscienti della possibilità di sbagliare, abbiamo il coraggio di operare ugualmente in favore dei nostri pazienti o della collettività, pronti a rispondere delle nostre scelte, solo allora siamo in grado di offrire qualcosa di veramente nostro. Sta qui l’antidoto alla medicina difensiva, all’inerzia clinica ed a quella gestionale che tante volte osserviamo e che sono sempre in agguato in ciascuno di noi. L’individualità precede, sotto questo profilo, la socialità, e nello stesso tempo è in funzione di essa. È l’aspetto “cruciale” (da crux, cioè difficile, che richiede sacrificio) dell’agire medico. Chi vuol vivere appieno la propria professionalità non ne rifugge, ma lo assume pienamente, sapendo che esso è costitutivo della propria scelta di lavorare per la salute dei suoi simili.
Non è possibile qui prendere in esame in dettaglio gli impegni concreti che discendono da questi principi generali e che il documento del Royal College of Physicians elenca. Accenno soltanto alla “compassion”, altro termine audace per chi lo voglia tradurre letteralmente. Patire-con” presuppone il penetrare in ciò che l’altro soffre, cioè l’empatia. Essa è oggi ben definita, accuratamente descritta, molto studiata ed autorevolmente raccomandata. Rende i pazienti più propensi a comunicare, facilitando la diagnosi, potenzia l’efficacia terapeutica e rende possibili interazioni vantaggiose sia per il paziente che per il medico. Anche noi abbiamo potuto osservare che applicando ad una popolazione di pazienti ambulatoriali ultrasessantenni quanto suggerito dalle linee-guida vigenti riguardo alla costruzione di un rapporto empatico, si è giunti alla diagnosi di numerose condizioni misconosciute di rischio cardiovascolare ed al miglioramento del profilo cardiometabolico (Marotta). Analogamente, è stato osservato per i pazienti infettati con il virus dell’immunodeficienza umana il sentirsi “considerati come persone” migliora l’adesione alla terapia antivirale e la probabilità che l’RNA virale sia reso irrintracciabile nel siero (Beach).
L’esperienza ci dice, tuttavia, che un’empatia autentica, una “con-passione” piena è attuabile solo posponendo ciò che si ha dentro di doloroso od anche di gioioso e di soddisfacente, per fare di sé uno spazio vuoto nel quale l’altro possa entrare e sentirsi accolto. Nella strategia per costruire un rapporto empatico proposta da Matthews (Matthews), un posto di rilievo spetta al far tacere dentro di noi commenti, critiche, domande e ragionamenti diagnostici mentre il paziente parla. Solo dopo sarà opportuno procedere a chiarire i punti oscuri del racconto ed a verificare le ipotesi cliniche. Questo silenzio interiore è necessario per fare spazio a ciò che il paziente intende comunicare di sé e della sua esperienza di malattia. Esso esige la fatica di “svuotarsi” temporaneamente, in certo senso, del nostro sapere medico, che potrebbe costituire un ingombro verso una comunicazione piena. Non si può penetrare nell’animo di un’altra persona, o – per meglio dire – far sì che l’altro, con il suo mondo esperienziale, abbia accesso alla nostra sfera cognitiva e – entro certi limiti – affettiva, se la nostra mente è occupata da nozioni, ipotesi e schemi. L’ascolto empatico richiede di essere liberi da ciò che abbiamo dentro, interiormente “poveri”: solo così si costruisce efficacemente un rapporto. E’ questa una regola di vita generale (Lubich), pienamente applicabile anche alla nostra professione. E’ la base della narrative based medicine.
Un rapporto costruito su questa base va ben al di là di qualunque norma o garanzia definita dagli organi regolatori della sanità (Irvine).

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